Fondamento e strumento di autonomia sociale, l’esercizio del dubbio è il primo passo verso una libertà condivisa


Il termine Ars dubitandi, l’arte del dubbio, emerge in tutta la sua prorompente modernità nel XVI secolo, quando Sebastiano Castellione, umanista, pedagogo e teologo savoiardo, decide di opporsi al predominio che la Chiesa Cattolica esercitava sulla morale, soprattutto grazie al potente strumento della confessione.
Castellione e l’esercizio del dubbio
Contro un modello teologico rigido e intollerante nei confronti del dissenso, Castellione propose un sistematico esercizio del dubbio per rivitalizzare la coscienza individuale, rifiutando anzittutto l’idea che per ‘difendere una dottrina’ si dovesse arrivare a uccidere chi non la condividesse. La condanna a morte di Michele Serveto è infatti un forte stimolo che lo porterà a scrivere un libello polemico insieme ad altri eretici.
Dubbio e ragione sono i fondamenti di un metodo volto a sconfessare la tirannia e le atrocità di un dogmatismo religioso che non risparmiava nessun dissidente dal rogo. Mettendo in discussione gli assunti principali della dottrina cattolica, il teologo savoiardo aprirà così con i suoi più strenui sostenitori un conflitto che diventerà insanabile ma foriero di grandi svolte storiche e conquiste sociali.
Oggi ricordiamo Castellione come formidabile antesignano della tolleranza e della libertà religiosa. Una rivoluzione che è stata possibile solo attraverso un deliberato e quanto mai coraggioso esercizio del dubbio, e che fanno di Castellione un precursore del pensiero critico e divergente. Un precursore, potremmo dire, della dissonanza.
Non contano solo la tecnica e la performance
Educare al pensiero critico significa insegnare a dubitare. Questo è più che mai necessario in una società che viaggia a tutta velocità verso sempre nuovi traguardi tecnologici, proponendo una visione del mondo incentrata sul mito dell’efficienza e dell’innovazione a priori.
L’egemonia culturale esercitata dalle nuove tecnologie ha portato a un conformismo che ha fatto della tecnica il fine ultimo di ogni operosità umana. Vittima di questo sistema è soprattutto la scuola, schiacciata dalla travolgente ondata di iper-tecnicizzazione e in bilico tra politiche sempre meno disposte a destinare fondi, in uno status quo che pare inamovibile.
Non tutto, però, può essere relegato alla conoscenza della tecnica: non abbiamo bisogno solamente di operatori iper-specializzati in grado di utilizzare al meglio i potenti mezzi della techne, ma di individui capaci di pensare autonomamente e riflettere sulle implicazioni etiche di quello stesso utilizzo. Quando l’imperativo è performare, e cioè usare al meglio le tecnologie di cui disponiamo ormai in ogni ambito, diventa cruciale imparare a porsi delle domande.
E la prima domanda che dobbiamo porci è proprio questa: qual è il valore della tecnica nella società della performance? È davvero auspicabile che l’apprendimento e l’educazione si riducano a fornire un sapere nozionistico fine a se stesso poiché messo in ombra da una crescente domanda dell’utile (con tutto che questa utilità andrebbe prima definita)?
La storia delle società umane si è sempre sviluppata nei margini dell’innovazione tecnologica, ma alla base di essa non può mancare una visione d’insieme, una capacità di mettere le cose in prospettiva per decidere quale sia il futuro che vogliamo creare. Se non impariamo a coltivare questa disposizione squisitamente umana saremo sempre e solo schiavi delle nostre stesse creazioni.
Se l’intelligenza artificiale sa rispondere, l’intelligenza umana deve saper domandare
L’importanza di dubitare e di porsi sempre nuovi interrogativi è sottolineata anche da Andrea Prencipe e Massimo Sideri nel libro Il Visconte Cibernetico in cui, rifacendosi al metodo letterario di Italo Calvino, riflettono sull’impatto dell’intelligenza artificiale generativa sul sistema del sapere.
Secondo i due autori, di fronte a strumenti come ChatGPT, che riescono a fornire (a una velocità sorprendente) risposte sempre più precise, è cruciale sviluppare un nuovo approccio in merito alla formulazione delle domande. Solo l’atto di domandare, infatti, rimane uno dei ‘più gelosi attributi della mente umana’, tanto più in una società che verte sull’automatismo di ogni incrocio tra domanda e offerta.
Per orientarsi in questa giungla di algoritmi, dove tutto sembra già deciso a tavolino da mani invisibili, bisogna saper distillare la verità e, non di meno, il buon gusto, saper individuare ciò che valga la pena d’esser detto. Non accettare quindi supinamente il flusso di informazioni a cui veniamo costantemente esposti, ma imparare a riconoscere qualcosa che abbia davvero valore per la nostra esperienza e vita culturale.
Un simile traguardo è perseguibile soltanto attraverso un’educazione che, senza farsi a priori nemica della tecnica, punti a sviluppare autentiche competenze umanistiche e sociali. Un’educazione basata sull’azione partecipativa e sul dubbio inteso come antidoto indispensabile contro la tecnicizzazione del sapere, dell’immaginazione e del vivere quotidiano.Un manifesto culturale e civile
[L’articolo è stato realizzato in collaborazione con il Laboratorio di Scrittura sul web, Scienze Umanistiche per la comunicazione, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2024/2025. Autore Michelangelo Casto]